Alla notizia della nascita di una lista civica islamica a Milano, che non possiamo né vogliamo chiamare «milanese», rispondiamo, per ora sommessamente, riportando questo articolo di Pierluigi Battista comparso sul Corriere della Sera dello scorso 27 settembre (pag. 37). Con una comunità del genere noi riteniamo sia il caso di prendere le opportune distanze, ciascuna mantenendo la sovranità sul proprio territorio.
⁂
C’è una vignetta che raffigura due donne: una coperta secondo l’usomusulmano, l’altra adornata da un copricapo grottesco. La didascalia dice: «Permettere il velo che copre il viso e proibire i cappelli d’alta moda». C’è qualcosa di tremendamente offensivo nei confronti della religione islamica, di oltraggioso, di violento, di ripugnante, di volgare in una vignetta cosí? Magari è solo una battuta non riuscita. Ma anche per questa vignetta una ragazza che si chiama Molly Norris viene licenziata dal giornale per cui lavorava, il Seattle Weekly, viene condannata da una fatwa e costretta a vivere blindata, sotto una protezione asfissiante. Molly Norris, la cui storia è stata raccontata sul Corriere da Guido Olimpio, è entrata così a far parte di una invisibile internazionale. Anzi, dell’internazionale più visibile mai conosciuta: quella dei giornalisti, dei vignettisti, degli intellettuali, dei registi che pagano con una vita impossibile un atto che considereremmo normale, ovvio, naturale nei sistemi democratici retti dal principio della libertà di espressione. Di questa internazionale non si parla mai. E chi subisce le minacce dei fanatici non soltanto trascorre la vita a nascondersi, a non farsi vedere, a cambiare domicilio, a perdere il lavoro, a espatriare, a costruire stanze inaccessibili, come il vignettista danese inseguito fin all’ingresso della stanza della salvezza da un energumeno armato d’ascia che lo voleva massacrare nel nome della sua religione. Chi viene condannato a morte è anche terribilmente solo, privo di quella solidarietà elementare che dovrebbe essere elargita a chi, in fondo, è colpevole soltanto di aver svolto in libertà il suo lavoro.
Il cortometraggio Submission di Theo van Gogh, il regista assassinato ritualmente in pieno centro di Amsterdam, è stato rifiutato da tutti i festival del cinema, da Locarno a Cannes. Non per ragioni artistiche, per il terrore di essere colpiti dalla rappresaglia dei terroristi. Ayaan Hirsi Ali è stata costretta a cambiare casa in Olanda perché i suoi vicini non volevano saperne di vivere accanto a un bersaglio prelibato dei fondamentalisti islamici. Nessuno, nella scuola francese del docente costretto a emigrare e a nascondersi per aver scritto sul Figaro un articolo critico nei confronti dell’islamismo, si è chiesto che fine abbia fatto quel professore: nemmeno un manifesto solidale, una riunione, un manifesto, niente di niente. Per non entrare nell’internazionale dei condannati a morte, gli sceneggiatori di South Park hanno prudentemente ritenuto di cancellare una battuta blandamente ironica nei confronti di Maometto. E certo, se avessero insistito mica avrebbero sentito la protesta dei paladini a zigzag della libertà d’espressione. Quelli che protestano al sicuro, senza dover pagare il prezzo di quei disgraziati che hanno sfiorato l’intoccabile. L’internazionale dei disgraziati.
Nessun commento:
Posta un commento